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FRATTURA DELL'OMERO

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FRATTURE PROSSIMALI DELL'OMERO
Le fratture prossimali dell’omero sono relativamente frequentii (il 4-5% di tutte le fratture).
In circa il 75% dei casi si verificano in donne in postmenopausa anziane e sono comunemente associate a una semplice caduta: si tratta,  correlate all’osteoporosi e, per frequenza, occupano il terzo posto dopo quelle del collo del femore e del polso2.
In letteratura esiste una notevole confusione riguardo le loro modalità di trattamento, tanto che per alcuni tipi di frattura sono possibili diverse soluzioni, a volte completamente differenti tra loro, che lasciano il terapeuta di fronte a una scelta personale e quindi metodologicamente scorretta.

Classificazione:
Le fratture prossimali dell’omero si avvalgono, principalmente, di tre sistemi classificativi:
- classificazione di Neer , basata sull’identificazione radiografica di quattro frammenti principali (testa omerale, grande e la piccola tuberosità e diafisi omerale) e dei loro rapporti reciproci; semplice e immediata è sicuramente quella maggiormente utilizzata, anche se non fornisce informazioni circa il rischio di necrosi avascolare della testa dell’omero;
- classificazione AO, basata sul grado di gravità della frattura e focalizzata anche sul grado di vascolarizzazione del segmento articolare; questo sistema, seppur completo e accurato, risulta spesso complesso e di difficile applicazione nella pratica clinica.
- classificazione di Hertel (Lego Classification); trova scarso riscontro nella pratica clinica per la sua complessità, ma ha avuto il merito di identificare chiari criteri per valutare il rischio di necrosi avascolare, consentendo così di elaborare linee guida precise circa il trattamento più adeguato.

La Diagnosi Radiologica
La procedura standardizzata prevede l’esecuzione della trauma series codificata da Neer nel 19703, ossia una proiezione anteroposteriore vera, un’assiale di scapola e una proiezione ascellare.
In alternativa, date le ovvie difficoltà ad eseguire una proiezione ascellare in un paziente traumatizzato (difficoltà alla abduzione) può essere utilizzata la proiezione ascellare alla Velpeau .
Quando la classificazione della frattura non risulta agevole al semplice esame radiografico o, comunque, permangono dubbi sulla pato-morfologia della lesione è possibile ricorrere a una TAC con scansioni di 2 mm e ricostruzione 3D.
In casi selezionati può essere utile anche l’esecuzione di un’angio-TAC per valutare i rapporti tra i monconi di frattura e le strutture vascolari oppure per dirimere o confermare il sospetto di una lesione vascolare acuta.

La Terapia
La scelta dell’approccio terapeutico più adeguato deve essere fatta tenendo conto non solo dei fattori legati alla frattura, ma, ovviamente, anche di quelli connessi al paziente, come l’eventuale presenza di comorbidità, il grado di compliance e, in particolare, l’età biologica correlata alle richieste funzionali (il grado di autonomia e funzionalità antecedente al trauma e quello che si presume il paziente possa e debba recuperare dopo il trattamento).

Trattamento conservativo
Il trattamento conservativo risulta indicato nei seguenti tipi di lesione:

fratture a 1 frammento composte o minimamente scomposte;
fratture a 2 frammenti minimamente scomposte;
fratture della grande tuberosità con una scomposizione inferiore ai 5 mm;
fratture a 2, 3 e 4 frammenti in pazienti inoperabili.
Questo tipo di approccio prevede l’immobilizzazione in tutore o bendaggio alla Desault per 3 settimane.

Il programma riabilitativo inizia a partire dalla 2-3a settimana e si basa su una cauta rieducazione motoria passiva.
Il movimento attivo e senza limiti può essere concesso a partire dalla 5a settimana.
È comunque da considerare accettabile un certo grado di scomposizione nei pazienti con uno stato di salute compromesso (alto rischio chirurgico), anziani o clinicamente instabili.

Per quanto riguarda i risultati, l’analisi della letteratura evidenzia i seguenti dati:
nelle fratture ad un frammento (one part fracture) si evidenziano scarso dolore e un risultato complessivo buono nel 90% dei casi;
nelle fratture a 2 frammenti (collo chirurgico) si evidenziano l’assenza di dolore nel 90% dei casi e un recupero della funzione del 90% rispetto all’arto controlaterale;
nelle fratture a 3 frammenti è possibile ottenere un buon sollievo dal dolore e un buon recupero funzionale per quanto concerne le minime attività richieste dalla vita quotidiana; spesso, però, si osserva una notevole perdita del grado di movimento;
nelle fratture a 4 frammenti sono stati riscontrati risultati soddisfacenti solo nel 5% dei casi..

Suture Transossee
Le suture transossee sono indicate nei seguenti casi:

fratture a 2 frammenti;
fratture a 3 frammenti;
fratture della grande tuberosità.
Questa metodica risulta controindicata in presenza di fratture particolarmente comminute o scomposte. La tecnica, già descritta da Neer nel 197012, prevede l’impiego di fili di sutura non riassorbibili 2,0 e 5,0 e di un accesso transdeltoideo di circa 5 cm. Nella sutura, i frammenti ossei sono solidarizzati mediante la trazione dei fili sui tendini della cuffia dei rotatori utilizzando la metodica del tension band13.
Al termine della procedura, il paziente viene immobilizzato per almeno 5 settimane (figura 1). Le suture transossee hanno mostrato buoni risultati nelle fratture a 2 e 3 frammenti, con un rischio di devascolarizzazione e necrosi minimo.

Uno studio di Cuomo et al14 su 22 pazienti con fratture a 2 e 3 frammenti trattate con suture transossee e un chiodo di Ender per le lesioni con una scomposizione significativa, ha evidenziato risultati buoni o eccellenti nell’82% dei casi. Un’altra casistica di fratture scomposte a 2 e 3 frammenti, il trattamento con sutura ha consentito di ottenere risultati eccellenti o, comunque, soddisfacenti, nell’89,3% dei pazienti15.
Infine, due recenti lavori di Dimakopoulos et al, che hanno adottato una complessa elaborazione di questa tecnica chirurgica in fratture a 2, 3 e 4 frammenti, hanno evidenziato risultati eccellenti nel 94% dei soggetti trattati.

Sintesi percutanea
Le indicazioni della sintesi percutanea includono i seguenti tipi di lesione:

fratture del collo chirurgico;
fratture della grande tuberosità;
fratture a 2 e 3 frammenti senza una comminuzione mediale e riducibili a cielo chiuso;
fratture ingranate in valgo e senza dislocazione laterale della testa.
Introdotta da Bohler nel 1968 ed elaborata da Resch nel 1997, la sintesi percutanea è una metodica mininvasiva e di rapida esecuzione contrassegnata da un rischio minimo di necrosi avascolare, ma che, per contro, comporta una diminuita possibilità di riduzione della frattura, una precaria stabilità della fissazione e una lunga immobilizzazione.
Questa tecnica prevede l’impiego di fili di Kirschner 2,0-2,5 impiantati sotto controllo radiografico mediante amplificatore di brillanza; la riduzione si ottiene per mezzo di uncini, elevatori e fili utilizzati come joystick.
L’intervento può essere completato con viti cannulate da 3,2 o da 4,5 mm per la grande tuberosità e ulteriori fili di Kirschner 2,0-2,5, preferibilmente filettati all’estremità e usati per sorreggere la testa omerale in senso retrogrado.
La sintesi percutanea non è scevra da rischi, tra i quali vanno ricordati, in particolare, il malallineamento della frattura, la migrazione dei pin con conseguente necessità di revisione e, infine, il rischio di infezione e di lesione neurologica (nervo ascellare) o vascolare. I risultati riportati da Resch in fratture a 3 frammenti (classe AO: B1 e B2) e a quattro frammenti (impattate in valgo, classe AO: C2) variano dal buono al molto buono con scarsi rischi di necrosi (0% in B1-B2, 11% in C1-C2).

Sintesi con placca (ORIF)
Le indicazioni all’utilizzo della sintesi con placca comprendono le fratture a 2, 3 e 4 frammenti scomposte o pluriframmentarie, anche in caso di osteoporosi.
Il trattamento mediante riduzione a cielo aperto e osteosintesi interna (Open Reduction and Internal Fixation o ORIF), si avvale oggigiorno di sistemi di sintesi tecnologicamente avanzati che hanno permesso di ovviare ai fallimenti osservati nel passato.
Infatti, le placche tradizionali non assicuravano una fissazione efficace, soprattutto nei pazienti osteoporotici e in fratture a 3-4 frammenti comminute o pluriframmentarie, tanto da risultare associate a un tasso di fallimento, per perdita di riduzione, superiore al 55%.
Le moderne placche a stabilità angolare che possiedono un angolo fisso vite-placca e viti filettate in modo da serrare la testa nei fori della placca, prevenendo il fenomeno di pull-out e garantendo una sintesi stabile indipendentemente dalla “qualità” dell’osso hanno permesso di conseguire brillanti risultati anche nei pazienti anziani osteoporotici e nelle fratture più gravi .
Questa tecnica permette una riduzione anatomica nelle fratture a 2, 3 e 4 frammenti, una sutura tension band per le tuberosità e una mobilizzazione precoce (movimenti pendolari, rieducazione motoria motoria attiva assistita nell’immediato e una rieducazione motoria attiva a 3 settimane). Il rischio di necrosi è pari al 35%25 e la devascolarizzazione chirurgica può farlo aumentare.

L’approccio chirurgico può essere deltoideo-pettorale (eventualmente esteso distalmente) o transdeltoideo, qualora si voglia eseguire la tecnica mininvasiva (Mini Invasive Plate Ostheosynthesis o MIPO). Fankhauser et al26 hanno riportato risultati soddisfacenti a un anno (82,6% tipo A; 78,3 tipo B; 64,6% tipo C) mentre la casistica di Strohm ha evidenziato buoni risultati nel 64% dei casi, con una frequenza di necrosi avascolare del 16%.

Cuffia dei rotatori: contribuisce a una tipica retrazione posteriore e superiore della grande tuberosità, grazie alla trazione esercitata dai muscoli extrarotatori, quali il sopraspinato, il sottospinato e il piccolo rotondo; il muscolo sottoscapolare, invece, tende a retrarre la piccola tuberosità medialmente.
Piccola tuberosità adesa al frammento della testa: in quest’evenienza, la trazione del muscolo sottoscapolare comporta una rotazione interna della testa omerale.
Grande tuberosità adesa al frammento della testa: in questo caso, la testa omerale risulta extra-ruotata e, al tempo stesso, dislocata lateralmente e posteriormente.
Muscolo grande pettorale: comporta una dislocazione anteriore della diafisi omerale, che viene a trovarsi, fortunatamente, anteriormente al tendine congiunto, e quindi lontano dal fascio neurovascolare.

Sintesi endomidollare (chiodo bloccato)

Le indicazioni della sintesi con chiodo endomidollare bloccato sono estendibili ai seguenti casi:

fratture del collo chirurgico;
alcune fratture a 3 frammenti con frammentazione mediale quando è possibile una riduzione a cielo chiuso.
Questo sistema, ideato negli anni Quaranta da Gerard Kuntscher, ha registrato progressi importanti, tra i quali, a partire dagli anni Novanta, l’introduzione di chiodi endomidollari corti per la sintesi di fratture prossimali delle ossa lunghe. I suoi vantaggi sono rappresentati dalosteoporosi patolola scarsa invasività e dalla possibilità di assicurare una notevole stabilità anche in pazienti osteoporotici e in fratture molto instabili (comminuzione mediale).
Tra gli svantaggi vanno annoverati la difficoltà di riduzione e il danno alla cuffia dei rotatori. La sintesi endomidollare ha dimostrato risultati eccellenti nell’86% dei casi28; tra le possibili complicanze vanno annoverate le lesioni a carico del nervo ascellare e del capo lungo del bicipite, la frattura della grande tuberosità o della corticale diafisaria laterale, l’impingement subacromiale e il danno condrale da viti intrarticolari.

Endoprotesi
Il trattamento protesico è indicato nei seguenti casi:

fratture a 3 e 4 frammenti in pazienti anziani osteoporotici e senza possibilità di ricostruzione o, comunque, ad alto rischio di necrosi avascolare della testa;
fratture a 2 frammenti del collo anatomico, soprattutto se associate a interruzione del medial hinge;
alcune fratture di tipo split devascolarizzate o da stampo, quando coinvolta più del 40% della testa;
fratture inveterate con dislocazione della testa.
L’impianto di un’endoprotesi in presenza di una frattura prossimale di omero è stato introdotto negli anni Settanta da Neer che riportò brillanti risultati, mai più eguagliati da altri autori. Questo tipo di approccio viene attualmente considerato una tecnica di salvataggio da riservare a casi selezionati .
La metodica è più semplice della ricostruzione e il suo successo dipende da una corretta regolazione della retroversione (20°- 40°), dall’altezza dell’impianto, dalla scelta di componenti della giusta dimensione e dal rispetto dell’offset omerale. La ricostruzione delle tuberosità omerali rappresenta, inoltre, un fattore cruciale per il risultato funzionale finale.
In ogni caso, è assolutamente da evitare quella che è stata definita “l’infelice e terribile triade” troppo alta, troppo retroversa e con una grande tuberosità troppo bassa. Le principali cause di fallimento sono infatti legate al malposizionamento protesico e alla mal riduzione/pseudoartrosi/riassorbimento delle tuberosità.
Tutta la moderna letteratura concorda sul fatto che, in generale, i risultati definitivi di protesizzazione su frattura, anche nelle migliori mani, sono poco riproducibili e spesso meno soddisfacenti che negli interventi di protesizzazione primaria.
Studi recenti evidenziano un Costant score tra 55 e 70%. Secondo Boileau i risultati sono da buono a eccellente nel 40% dei casi, soprattutto per quanto riguarda la scomparsa del dolore rispetto al recupero del movimento o della forza.

Conclusioni
Le fratture dell’epifisi prossimale dell’omero rappresentano un campo di difficile gestione anche per il chirurgo ortopedico esperto. Negli ultimi anni sono stati compiuti numerosi progressi nel migliorare le linee guida di trattamento, nella realizzazione di modelli classificativi, nello sviluppo di tecniche di imaging radiologico sempre più accurate e nell’introduzione di nuove strategie chirurgiche e di filosofie di riabilitazione, ma molto resta ancora da comprendere e da chiarire per una corretta e completa definizione delle migliori tecniche di trattamento.
Le opzioni terapeutiche esistenti sono innumerevoli, ma non sono state ancora del tutto definite delle chiare linee guida. In base alla nostra esperienza e ai riscontri della letteratura, la chiave del successo nella gestione di questa patolola gia dipende dalla corretta indicazione, che deve essere posta alla luce di un’attenta analisi non solo del pattern di frattura, ma anche delle caratteristiche biologiche, cliniche, sociali e lavorative del paziente. Inoltre, non esistono tecniche univoche di trattamento, ma queste dovranno essere, di volta in volta, adeguate e combinate al singolo caso.
Nella scelta del tipo di approccio più adeguato, la rigorosa classificazione della frattura è dirimente; pertanto, è fondamentale un minuzioso studio radiologico. La corretta diagnosi e classificazione, nonché il corretto inquadramento delle eventuali lesioni associate indirizzano al tipo di trattamento (conservativo vs chirurgico), alla scelta del mezzo di sintesi, alla pianificazione dell’atto chirurgico e della via di accesso più adeguata. Tutto questo consente la stratificazione del rischio di necrosi avascolare, nonché la valutazione del rischio vascolare e della necessità di ricorrere a competenze multidisciplinari (chirurgo vascolare).
Ciononostante, anche lo sforzo diagnostico più valido può essere smentito dalla realtà durante l’atto chirurgico ed è pertanto consigliabile disporre di tecniche di sintesi o di metodiche alternative per fronteggiare eventuali “sorprese”. In ultimo, va ricordato che il risultato finale dipende in buona parte anche dalla compliance del paziente e da un corretto programma riabilitativo. Ma, purtroppo, quest’ultimo aspetto, sfugge alle possibilità di controllo del chirurgo.

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